Partendo dalla motivazione abbiamo visto come il senso di autoefficacia giochi un ruolo decisivo nello sviluppo della resilienza e come esso sia influenzato dal nostro modo abituale di pensare, interpretare e giudicare la realtà.

Il termine abituale qui è voluto per sottolineare il fatto che parliamo di abitudini, cioè di qualcosa che è stato ripetuto svariate volte e che ha dunque sviluppato una “presa” sulla mente.

Tale presa può rafforzarsi nel tempo per via di due fattori: in primo luogo perché generalmente non ci preoccupiamo di mettere in dubbio le nostre abitudini in quanto, essendo per lo più inconsapevoli, sono difficili da riconoscere.

L’altro fattore è un particolare processo mentale che definisce le componenti della nostra identità oppure ciò che intendiamo per realtà facendo leva sulle emozioni, i pensieri, le interpretazioni, i giudizi e le immagini che ci facciamo della realtà circostante.

Quando ci identifichiamo in qualcosa, diamo ovviamente maggior forza a questo qualcosa perchè, fondamentalmente, finiamo per credere in esso; anche se non si tratta di una attività errata di per se, c’è però da tenere presente che essa è, per lo più, inconscia e può influenzarci negativamente.

Facciamo un esempio: poniamo il caso di una persona che nella sua vita ha vissuto diversi eventi e che, per via del modo in cui li ha interpretati, ha creduto di essere vittima delle circostanze, sviluppando la convinzione di essere una persona sfortunata; tale convinzione può essere entrata a far parte del suo senso di identità come una componente dell’immagine che ha di se.

Sebbene questa immagine non definisca questa persona per quello che è veramente – è solo il frutto di una sua interpretazione soggettiva, essa finisce per influenzare negativamente il modo in cui vede se stessa ed il mondo circostante.

L’esempio, anche se semplice, permette di cogliere due aspetti importanti legati tra loro: l’identificazione opera sulla base di un particolare rapporto che abbiamo con il contenuto della nostra esperienza e tale rapporto generalmente consiste nell’attribuire una particolare importanza ad un contenuto specifico in modo da farci disconnettere dall’esperienza del momento.

Tornando all’esempio, la persona in questione si distacca dalla reale esperienza degli eventi della sua vita, interpretandoli attraverso una particolare forma – il pensiero di essere una persona sfortunata, e dando quindi più importanza a tali contenuti che all’esperienza di per se. Così facendo, essa getta le basi di quella che, con la ripetizione e il tempo, diverrà una componente del suo senso di identità.

Ma questa persona voleva davvero tutto questo ? Se al momento dell’esperienza fosse stata in grado di prestare piena attenzione ai suoi processi mentali ed emotivi, avrebbe potuto rendersi conto dell’erroneità dei suoi pensieri ?

Può darsi, ma la questione è: esiste un modo per diventare più consapevoli di noi stessi e del modo in cui viviamo le nostre esperienze e la nostra vita ?

La risposta può essere fornita attraverso la meditazione ma, prima di comprendere meglio in che cosa consiste, è opportuno sgombrare il campo da alcune ambiguità e potenziali incomprensioni connesse all’uso di tale termine.

La meditazione a cui si fa riferimento non va infatti confusa con l’atto di sedere in un luogo isolato per osservare il proprio respiro, nè con uno stile di vita mistico o ascetico, nè con il rifiuto del mondo e della vita quotidiana, nè con un esercizio di rilassamento (anche se questo può essere uno degli effetti indiretti che si producono).

Invece, si tratta di prestare piena attenzione al momento presente per accogliere l’esperienza, qualunque essa sia, nelle sue varie componenti mentali ed emotive, senza pregiudizi e attraverso lo sguardo di un osservatore curioso.

Tale pratica sta conquistando sempre più interesse in occidente, pur essendo nata altrove, anche come mezzo per fronteggiare meglio i livelli di stress derivanti dal nostro stile di vita. Secondo le evidenze raccolte da studi e ricerche, essa produce progressivamente dei benefici alle aree prefrontali del cervello, direttamente coinvolte nell’attenzione e nel processo di mediazione delle risposte emotive.

In particolare, pare che l’osservazione dei contenuti mentali ed emotivi legati alla nostra esperienza (pensieri, reazioni emotive, giudizi, attaccamenti, ecc…) insegni gradualmente a vederli per ciò che sono veramente, cioè dei fenomeni transitori, degli eventi interni che, pur accadendo, non rappresentano necessariamente una realtà assoluta ed immutabile e dai quali possiamo scegliere di distaccarci.

 

Questo osservare con attenzione ci permette di conoscere meglio noi stessi, i nostri punti di forza e di debolezza, le nostre attitudini ed il modo in cui siamo normalmente portati a “reagire” alla vita; in poche parole porta ad una maggior consapevolezza, il che si traduce in una maggiore libertà di scegliere le azioni e le decisioni più opportune e, quindi, in una maggior resilienza perché la persona vede indirettamente aumentare il proprio senso di autoefficacia, cioè la sua capacità di far fronte ad impegni, nonostante le difficoltà e gli inconvenienti.

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